giovedì 11 agosto 2016

Quale futuro per l'Unione?

DOPO LA BREXIT, QUALE EUROPA?


di
Marco Giustinelli

Ci eravamo addormentati tranquilli che non era cambiato nulla e che la paura di vedere i sudditi della regina Elisabetta uscire dal club europeo, si sarebbe definitivamente dissolta con le prime luci dell’alba. Invece, anche stavolta, i sondaggisti avevano preso una sonora cantonata. La maggioranza dei cittadini inglesi aveva detto che l’esperienza europea – o meglio, la permanenza in questa Unione Europea -  era terminata nella terra di Riccardo Cuor di Leone e di William Shakespeare.
Si potrebbe dire che la Scozia aveva votato compatta per la permanenza, insieme all’Irlanda del Nord e alle grandi aree metropolitane, che subito dopo milioni di britannici avevano chiesto di ripetere il referendum, che sono spuntati “pentiti” ad ogni angolo delle strade, ma la realtà è una e incontrovertibile: Ai cittadini inglesi era stata posta una domanda e la risposta è arrivata chiara e forte. Questa è la democrazia.
Che poi il supponente Cameron se l’è andata a cercare con il lanternino questa incredibile débâcle, è altrettanto vero. La storia è fatta più dagli errori degli uomini che dalle loro virtù. E il premier inglese ha certamente incarnato nel peggiore dei modi questo concetto. Per avere tutto, ha perso tutto. Paese, partito, credibilità personale e internazionale. E ha provocato danni al suo paese, all’Europa e al mondo intero di cui si pagheranno le conseguenze per anni.
Perché in un momento storico in cui, faticosamente, si stava uscendo dalla lunga crisi economica, il sistema aveva bisogno come il pane di stabilità e certezze e, invece, la Brexit fa piombare tutta la comunità internazionale in scenari, come sottolineato da Mario Draghi, assolutamente nuovi e, conseguentemente, pieni di insidie. E’ comprensibile quindi la presa di posizione di molti autorevoli esponenti politici che chiedono di affrettare le procedure di uscita della Gran Bretagna dall’Unione, come sostenuto anche dal nostro Matteo Renzi.
In questa fase è meglio avere uno scenario chiaro, anche se doloroso, che nebbioso e indefinito. Lo vogliono i mercati, lo vogliono le borse, lo vogliono tutti quelli che ancora credono in una idea di Europa che vada al di là degli egoismi dei singoli membri e che abbracci, invece, un concetto di unione politica e sociale di bel altro e alto livello.
Non era certamente questa l’Europa ipotizzata da Spinelli o da Schuman. Oggi abbiamo una Europa spaccata, che trova un suo comune denominatore solo nella moneta unica. Non era l’Europa delle banche e della finanza quella sognata dai padri fondatori. E quando si toglie forza ai sogni e si lascia solo ai soldi, questi sono i risultati che si ottengono. La gran Bretagna è fuori, i paesi mediterranei arrancano tra debito pubblico e indicatori negativi. Se non si trovano soluzioni a tempi brevi, la possibilità di una implosione è sempre più vicina al passaggio dal possibile al probabile.
Il passaggio virtuoso, può essere solo quello che passa dalla finanza alla solidarietà. La disomogeneità dei sistemi di governo dei singoli stati che vanno dalla Monarchia costituzionale di Spagna, Belgio e Paesi del Nord alla Repubblica parlamentare dell’Italia a quella presidenziale della Francia alle democrazie ancora con influssi totalitari dei paesi dell’ex Europa dell’Est, non consentono, realisticamente, di pensare ad una unione politica in tempi brevi o comunque non lunghissimi.
Quello che si può e si deve fare, invece, è agire su alcuni aspetti sicuramente percorribili. Innanzitutto strutturare una difesa comune, con Forze Armate europee e con Missioni di Pace affrontate da un unico esercito continentale, così come la gestione delle politiche di immigrazione e di protezione delle frontiere esterne. La sicurezza, nei tempi dell’Isis, è certamente un aspetto prioritario. Poi le politiche fiscali vanno unificate, in modo da garantire la stessa base di partenza dal punto di vista della competitività a tutte le imprese operanti sul territorio dell’Unione. Poi, l’aspetto più delicato. I paesi più virtuosi, come la Germania (che in questi anni si è arricchita sulle disgrazie degli altri), dovrebbero rinunciare al concetto di finanziare il debito pubblico in modo differenziato per nazione. I titoli di stato dei paesi dell’Unione dovrebbero essere riuniti in “titoli Europei” garantiti, solidalmente, da tutti i componenti dell’Unione. Finirebbe così lo spauracchio dello Spread e si comincerebbe a parlare di Europa in modo più concreto e solidale. Se continuiamo così, invece, oltre a coltivare un orticello sempre più piccolo e meno fornito, continueremo ad avere la percezione che siano altri a decidere perfino che ortaggi piantare.
Viviamo quindi la Brexit come un problema che crea una opportunità. Certamente questo evento ha smosso una situazione di stallo e di continua gestione dell’emergenza e dei piccoli e grandi egoismi nazionali. Non lasciamoci sfuggire l’opportunità di ripensare l’Europa come la patria di tutti, come madre attenta ai bisogni dei suoi figli e non come matrigna egoista e lontana. Solo così l’effetto domino che, inevitabilmente, la Brexit sta innescando, forte anche delle basse speculazioni intellettuali di chi pensa di usare le disgrazie proprie e altrui per raggranellare manciate di voti e di potere a basso costo, può essere depotenziato e si possa tornare a pensare l’Europa come la culla della civiltà dove tutti e ciascuno possano sentirsi orgogliosi di appartenere e di averla come patria per i propri figli.


martedì 9 agosto 2016

Terrorismo.Quali soluzioni?

Quando la paura diventa una compagna di viaggio
TERRORISMO QUALI SOLUZIONI?


Una lunga scia di sangue ha attraversato un Luglio che passerà alla storia come il cuore di una estate segnata dal terrore, dai morti, dalla paura. Prima Dacca, con nove nostri connazionali trucidati al termine di un giorno di lavoro, mentre si godevano a migliaia di chilometri da casa, un momento di relax. Poi Nizza, con un pazzo terrorista che forza il blocco della polizia e si butta a folle velocità tra la folla che si gustava serena e tranquilla lo spettacolo dei fuochi artificiali al termine dei festeggiamenti del 14 Luglio, Festa della presa della Bastiglia. 84 morti. Di ogni nazionalità, religione, età e fascia sociale. Infine Istambul e Ankara, due città ai confini della nostra Europa, dove il fallito colpo di stato ha lasciato lo strascico di centinaia di morti, tra golpisti e lealisti. In mezzo i “soliti” attentati in Iraq e in Africa, relegati ormai ad un sottotitolo durante i Tg o a un trafiletto in sesta pagina. Su tutto, un alone di paura che stringe il cuore a chi vede i propri figli uscire di casa la mattina per andare all’Università o i propri cari recarsi al lavoro o a farsi una passeggiata serale per sfuggire alla morsa del caldo estivo. Non si cade sui campi di battaglia o a difesa di obiettivi strategici. Si muore a teatro, nei bistrot di una Parigi da sempre multietnica e simbolo di accoglienza e di integrazione, si muore nel ristorante di un paese dove vai per lavorare, per te e la tua famiglia, si muore mentre passeggi sul lungomare in Costa Azzurra e guardi il cielo illuminato. Torna la strategia della tensione, stavolta su scala internazionale. I terroristi dell’Isis colpiscono senza una logica apparente. L’obiettivo è minare la serenità e la fiducia nelle istituzioni in un continente, l’Europa, dove, occorre ribadirlo, trovano ancora cittadinanza valori come libertà, fraternità, uguaglianza. Un continente dove le radici giudaico cristiane sono comunque alla base di una visione globale di rispetto dell’altro. Gli integralisti islamici vanno in paradiso se si fanno esplodere in un centro commerciale o al check in di un aeroporto. Gli integralisti cristiani si chiamano Teresa di Calcutta o Martin Luther King o Francesco d’Assisi. E sono andati in Paradiso perché hanno dato la loro vita per la pace, per i poveri, per l’integrazione tra bianchi e neri. E’ una guerra, una guerra di culture, una guerra tra due modi di intendere l’esistenza. E come rispondere alla domanda che tutti noi ci facciamo, su come far smettere questa inutile e assurda mattanza? Sicuramente la soluzione non può essere militare, o almeno non solo. Anche a parte dell’occidente l’Isis fa comodo. Veicola denaro, acquista e fa acquistare armi e munizioni, vende petrolio sottocosto, alimenta la rabbia e la falsa solidarietà verso il popolo palestinese, gioca sulle insoddisfazioni degli immigrati nelle periferie delle metropoli europee, incrementa il redditizio traffico di esseri umani dall’Africa al Vecchio Continente. Insomma, è molto spesso l’ipocrisia dei ricchi ad alimentare la disperazione dei poveri. Anche ad una parte dell’Occidente, Stati Uniti compresi, non dispiace un mondo che ha bisogno di schierarsi per godere del diritto alla pace e allo sviluppo. La soluzione è complessa, articolata, coraggiosa. “La bellezza salverà il mondo” scriveva Fëdor Michajlovič Dostoevskij nell’”Idiota”. Occorre quindi, per salvare il mondo, cercare la bellezza in antitesi alla estrema bruttezza della morte. Occorre cercarla nel quotidiano, riscoprirla nella natura, costruirla nei rapporti con l’altro, conquistarla nell’estrema difesa della vita. Salvaguardare il diritto allo studio, alla casa, al posto di lavoro, creando opportunità per tutti e non pretendere un peloso assistenzialismo. Lavorare sulla dignità della persona, avere il coraggio di rompere la logica di violenza che chiama violenza. Difendersi è un diritto, ma non può essere la soluzione. Sconvolge vedere che in molte occasioni i terroristi sono europei da due generazioni, con un lavoro, una famiglia, dei figli. Sconvolge scoprire, come a Dacca, che gli assassini sono studenti universitari di buona famiglia. Ci dà un senso di insicurezza ancora più profondo constatare che il mostro è il vicino di casa con il quale scambiamo battute sul tempo o sul campionato di calcio o il compagno di studi di nostro figlio. Ma, tutto questo chiama ancora di più ciascuno di noi ad essere protagonista nella costruzione di un mondo nuovo, dove la costante ricerca della bellezza rappresenti l’antidoto contro il male. Lo dobbiamo a noi stessi, alla nostra storia, ai nostri figli. 

lunedì 8 agosto 2016

Francesco, il parroco del mondo!

A CRACOVIA SI E' CONCLUSA LA GMG 2016
FRANCESCO IL PARROCO DEL MONDO

Non ha la leadership di Giovanni Paolo II. Non ha l’intelligenza vivace e la cultura straordinaria di Benedetto XVI. Bergoglio è un papa semplice, immediato, umile che offre la testimonianza del buon parroco di provincia. Come quando, arcivescovo di Buenos Aires preferiva girare in autobus anziché sull’auto di rappresentanza o come, appena eletto papa, la mattina seguente si fa accompagnare all’albergo che lo aveva ospitato, per ritirare i bagagli e saldare (di tasca sua) il conto del soggiorno. Francesco è il papa del quotidiano. Va dall’ottico e si limita a cambiare le lenti su una vecchia montatura, piuttosto che sprecare denaro per acquistare un paio di occhiali nuovi. E, molto probabilmente, è questo il papa che la gente cercava, il papa che i giovani, accorsi in massa a Cracovia, volevano incontrare. E lo hanno incontrato. Un quarto di secolo dopo Giovanni Paolo, un papa torna in Polonia per la Giornata Mondiale della Gioventù, per portare al mondo intero, un messaggio di pace, di non violenza, di accoglienza e solidarietà.
Tempi difficili per la Chiesa, chiamata a dare risposte credibili a chi, in nome di dio, sgozza un vecchio prete sull’altare mentre celebra l’Eucarestia. Omicidio, odio per il cristianesimo, profanazione del luogo e del momento che rappresentano la massima espressione di sacralità del cattolicesimo. Cosa rispondere agli oltre due milioni di giovani che si aspettano una motivazione alla quale aggrapparsi, una giustificazione in grado di dare soluzione ai tanti perché che questa ondata di violenza assassina suscita. Soprattutto in chi, agli albori della primavera della vita, ancora non si è fatto una propria idea sul perché dell’esistenza o le ha ancora in fragilissima fase embrionale.
E la lunga notte all’aperto, dopo la grande veglia del sabato, interrotta solo dai canti e dal suono delle chitarre e dalla voglia di aspettare il nuovo sole in allegria, insieme ad una moltitudine con la quale condividere la propria fede e le proprie aspettative, con gli occhi della Speranza.
Tre giorni di parole, ma anche di gesti, di sorrisi, di carezze, di allegria, di battute. Il vecchio uomo, datato nel corpo (compirà ottanta anni il prossimo 17 dicembre), ma eccezionalmente giovane nello spirito. Il papa di Roma che sa comunicare con discorsi farciti dalla terminologia propria dei nativi digitali. Non più tardi di qualche decina di anni fa nessuno si sarebbe mai aspettato di udire dalla bocca di un Sommo Pontefice termini come app, smartphone, social. E mai come in questo tempo, si avvera la teoria della comunicazione di Marshall Mc Luhan, “il mezzo è anche il messaggio”.
Non il carisma, non la cultura, non la profezia. Francesco oggi è la testimonianza. E oggi, a Cracovia gli oltre due milioni di ragazze e ragazzi non chiedevano altro che testimonianza.
La croce d’argento, segno della rivoluzione di Francesco, si sposa con le scarpe risuolate, con la borsa sottobraccio che porta quando sale la scaletta dell’aereo con dentro, come lui stesso ha candidamente confessato ad un giornalista curioso, il rasoio, il salterio e qualche libro da leggere durante il viaggio. E poi, il soffermarsi a confessare, i ragazzi insieme a lui sulla papamobile, le carezze agli anziani e ai disabili e la forza straordinaria di annunciare la propria fede in un dialogo con il mondo.
L’apogeo della GMG si è toccato durante la veglia del sabato sera. In questo appuntamento, Francesco, più che un discorso programmatico, ha voluto dare ai tre milioni di presenti (secondo le stime del sito ufficiale della GMG) un vero e proprio “mandato”, un invio verso la società con l’esortazione ad essere protagonisti della propria vita in ogni istante.
Questo è il segreto, cari amici, che tutti siamo chiamati a sperimentare – ha incoraggiato il Papa - Dio si aspetta qualcosa da te, Dio vuole qualcosa da te, Dio aspetta te. Dio viene a rompere le nostre chiusure, viene ad aprire le porte delle nostre vite, delle nostre visioni, dei nostri sguardi! "
L’invito a “spalancare le porte” che richiama all’esortazione di inizio pontificato di Giovanni Paolo II, è la difesa ai tanti problemi che attanagliano le nuove generazioni. Il papa esce dalla facile retorica di tutti i giorni “Non c'è solo la droga - ha detto Francesco - nella vita c'é una paralisi difficile da identificare e che ci costa molto riconoscerla: pensare che per essere felici serva un divano. Il divano è la paralisi silenziosa che può rovinare di più la gioventù”. In questo modo „ci troviamo imbambolati e intontiti” e altri, più svegli, ma non più buoni, decidono il futuro per noi ". Ma „voi - ha chiesto con forza Francesco -volete lottare per il vostro futuro?”. „Non siamo venuti al mondo per vegetare, ma per lasciare un’impronta „.
E, alla base di tutto, la difesa della libertà, il valore che secondo Francesco è il più a rischio in questo tempo di disimpegno e di omologazione. „C'è tanta gente che non vi vuole bene e non vi vuole liberi” ha assicurato ai ragazzi, „e noi dobbiamo difendere la vostra libertà!”
E invita tutti a calzare le scarpe della fiducia, ad imitazione di Cristo, che ti aiutino a camminare su strade mai sognate e nemmeno pensate, su strade che possono aprire nuovi orizzonti”. È questa la sfida.
Camminare insieme agli altri, in qualsiasi ambito, portando la Buona Notizia e facendo della propria vita un dono, per essere felici, dare il meglio di sé e rendere il mondo migliore. E ci possiamo riuscire, ha assicurato il papa, creando un ponte di fratellanza, chiedendo a tutti di esigere di percorrere le strade della fraternità, ascoltando la chiamata di Dio, perché quando Lui chiama, non pensa a ciò che siamo o abbiamo fatto, ma guarda tutto ciò che potremmo fare, tutto l'amore che siamo capaci di donare.
 „Oggi Gesù ti invita, ti chiama a lasciare la tua impronta nella vita, un’impronta che segni la storia, che segni la tua storia e la storia di tanti”.

Parole chiare, semplici, comprensibili, dirette. Un papa senza paura un papa vicino. Chi si aspettava a Cracovia il Vescovo di Roma ha trovato, invece, il parroco del mondo.

domenica 7 agosto 2016

Defibrillatori. L'obbligo slitta a Dicembre

DEFIBRILLATORI ENNESIMO RINVIO
QUANDO DIVENTEREMO UN PAESE SERIO?


Siamo alle solite. L’applicazione del decreto Balduzzi che imponeva a tutte le realtà sportive di dotarsi di defibrillatori semiautomatici e di personale addestrato all’intervento in caso di arresto cardiopolmonare, ha subito l’ennesimo rinvio. Il termine del 20 Luglio è stato prorogato alla fine di Novembre 2016. Rinvio dopo rinvio, il decreto, in attuazione della Legge 189 dell’8 novembre 2012, dopo quattro anni rimane solo ancora sulla carta. “ Dal giorno di approvazione della Legge (Novembre 2012) – si legge sulla pagina facebook della Fondazione Giorgio Castelli - da sempre in prima fila nella battaglia per la diffusione della cultura dell’emergenza – sono più di 500 le persone colpite da arresto cardiaco durante l’attività sportiva. La presenza e l’uso del defibrillatore ne avrebbero potute salvare una percentuale importante, che invece non ha avuto scampo.” Quaranta mesi (e dieci giorni) e ancora non possiamo essere certi che quello del 30 novembre rappresenti il termine ultimo, in quanto la motivazione addotta dagli autori del rinvio, firmato dalla ministra Beatrice Lorenzin, parla di incompleto addestramento da parte degli operatori deputati all’uso. Ma, come fa sempre correttamente notare la Fondazione Castelli, adottare una proroga di quattro mesi, di cui due di piena estate, cambierà la situazione? Con molta probabilità, quindi, il decreto Balduzzi rischia di subire un ulteriore slittamento dei termini.
Chiediamo a Marco Giustinelli, Direttore di Istituto Professionale e Collaboratore del Comitato Regionale Lazio della Federazione Italiana Giuoco Calcio di chiarirci alcuni aspetti del problema.

Che cosa è un defibrillatore?
“Il defibrillatore semiautomatico, o DAE, è un apparecchio elettronico che permette, anche a chi non è medico, di poter soccorrere una persona che versa in stato di arresto cardiorespiratorio. E’ realizzato in modo che entra in azione solo se è necessario, bloccando in modo automatico l’uso improprio e la possibilità quindi di commettere errori. All’operatore rimane solo l’onere di garantire la sicurezza dell’ambiente e delle persone nel momento dell’erogazione della scarica. Una voce automatica guida passo passo le operazioni, aiutando l’operatore che, essendo , appunto, un “non” sanitario, potrebbe non avere la lucidità per ricordare tutta la procedura a memoria”

Ma non sarebbe meglio aspettare i soccorsi e far intervenire personale qualificato?
“C’è un solo problema che non consente questo, ed è il tempo a disposizione. Se in questo momento io venissi colpito da un arresto cardiopolmonare, la mia unica speranza di sopravvivenza è che almeno uno di voi sia in grado di intervenire con manovre salvavita e, appunto, con la defibrillazione precoce. Nel momento che mi si arresta il cuore, sono clinicamente morto e solo un intervento entro tre/quattro minuti può darmi la speranza di riattivarlo. Passati dieci minuti avviene anche la morte biologica, con le cellule cerebrali che iniziano a morire. Si capisce bene che nessuna ambulanza e nessun servizio di pronto soccorso, per quanto veloce e efficiente possa essere, è in grado di intervenire in tempi così ristretti. La speranza di sopravvivere è quindi legata alla preparazione delle persone che mi circondano e, appunto, alla presenza e all’uso del defibrillatore.”

Qualcuno dice che avrebbe paura ad intervenire per paura di conseguenze legali in caso di manovre sbagliate.
“E’ una affermazione che mi fa sorridere. E’ come se mio figlio di cinque anni stesse annegando al mare a due metri da me e io, invece di soccorrerlo direttamente, uscissi dall’acqua per chiamare il bagnino. La legge tutela, in ogni caso, colui che agisce in stato di emergenza, anche se dovesse causare danni. Comunque è un falso problema. Chi è in arresto cardiaco è morto. Punto. Qualunque azione io faccia, giusta o sbagliata, non potrà aggravare ovviamente la situazione. L’intervento di un soccorritore può fare la differenza tra la vita e la morte. Inoltre, ad ulteriore garanzia, nel momento che metto in funzione il defibrillatore, un microfono ambientale registra quanto accade, tutelando l’operato del soccorritore anche rispetto all’aspetto della sicurezza ambientale che, ripeto, è l’unica parte che ricade sotto la responsabilità dell’operatore.”

Un altro problema sono i corsi di addestramento e il loro costo che rappresenta un ulteriore onere a carico delle società sportive, soprattutto delle più piccole.
“Anche questa è una affermazione non esatta. Il movimento a favore della cultura dell’emergenza è ormai diffuso su tutto il territorio ed opera principalmente in regime di volontariato. La Fondazione Castelli, con la quale collaboro da anni, svolge, in collaborazione con Ares 118, corsi completamente a titolo gratuito. E come lei, tante altre associazioni. Il corso poi, dura una mattinata, generalmente di sabato per consentire a tutti di partecipare. Quindi non concediamo alibi. La formazione è semplice, rapida e gratuita.”

Anche il defibrillatore ha però un costo importante.
“L’apparecchio costa intorno ai mille euro. Se consideriamo che anche per una piccola società che ha un centinaio di ragazzi iscritti, si tratterebbe di chiedere un euro in più al mese per un anno a ciascuna famiglia. Sfido chiunque a dimostrarmi che un genitore, opportunamente informato, baratterebbe la sicurezza di suo figlio contro meno di un caffè al mese. Un paio di parastinchi costa certamente di più e protegge una parte del corpo sicuramente meno importante e nessuno ha mezzo problema ad acquistarli. Inoltre per le società di calcio del Lazio, grazie all’aiuto del Comitato regionale, c’è la possibilità di acquistarlo a prezzo convenzionato e con un pagamento rateale.”

Allora, dove sta il problema?

“Il problema è essenzialmente culturale. E l’applicazione della Legge è uno sprone che non sostituisce lo spirito di solidarietà e condivisione che rappresenta uno dei valori di chi fa sport, ma comunque lo rafforza. Provvedersi di un defibrillatore e addestrarsi al suo utilizzo, significa avviare un ciclo virtuoso che innalza la qualità generale dell’ambiente. Chi diventa un soccorritore laico non lo fa per sé, ovviamente, ma per essere in grado di aiutare il prossimo. Nel 2009 abbiamo introdotto nell’Istituto di formazione dove lavoro un corso obbligatorio per tutti gli allievi, di rianimazione cardio polmonare. In sette anni abbiamo sensibilizzato oltre mille ragazzi, mandando un messaggio forte in direzione della solidarietà e dell’attenzione all’altro. Creare la cultura dell’emergenza, oltre che ad innalzare il livello di sicurezza negli ambienti dove si gioca, si studia, si lavora, contribuisce a formare persone e cittadini migliori. E su questo, la distrazione della classe politica non è sintomo di grande senso di responsabilità.”

sabato 6 agosto 2016

MADRE TERESA LA KAMIKAZE DI DIO


IL 4 SETTEMBRE SARA' PROCLAMATA SANTA DA FRANCESCO
MADRE TERESA
LA KAMIKAZE DI DIO


Il 4 Settembre, nell’anno del Giubileo della Misericordia, papa Francesco regalerà all’umanità una nuova santa. Anjezë Gonxhe Bojaxhiu, al secolo Madre Teresa di Calcutta. Se qualcuno volesse cercare una soluzione alle divisioni religiose che straziano l’umanità, sicuramente la troverebbe nella vita, nelle parole, ma soprattutto nelle azioni che questa donna, minuta nell’aspetto ma gigantesca nello spirito, ha messo al servizio di quelli che ha sempre definito “i più poveri tra i poveri”. Non ha mai nascosto la sua fede, non si è mai vergognata di essere cristiana cattolica, fedele alla Chiesa e al papa. Ma non ha mai neanche guardato nessuna persona con il filtro della religione o della appartenenza ad una casta.
Una vera kamikaze di Dio, che ha donato la sua vita a chi, in una delle città più povere del pianeta, aveva perso tutto, dalla salute, all’intelletto e perfino alla dignità di essere vivente.
La sua vita è un icona al servizio, alla integrazione. Teresa amava dire: “C'è un solo Dio, ed è Dio per tutti; è per questo importante che ognuno appaia uguale dinnanzi a Lui. Ho sempre detto che dobbiamo aiutare un indù a diventare un indù migliore, un musulmano a diventare un musulmano migliore ed un cattolico a diventare un cattolico migliore. Crediamo che il nostro lavoro debba essere d'esempio alla gente. Attorno noi abbiamo 475 anime: di queste, solo 30 famiglie sono cattoliche. Le altre sono indù, musulmane, sikh... Sono tutti di religioni diverse, ma tutti quanti vengono alle nostre preghiere». »
Una gigante nelle opere, nel pensiero, ma, soprattutto, nella semplicità. Non si è mai vergognata di riconoscere di aver vissuto momenti di dubbio, su se stessa, sulle proprie scelte, sull’esistenza stessa di Dio. Stando ai racconti di padre Brian Kolodiejchukz, in una lettera alle sue consorelle, pubblicata dopo la sua morte, scriveva di aver passato dei momenti in cui non sentiva "la presenza di Dio né nel suo cuore né nell'eucaristia" e al suo confessore spirituale confidava: "Gesù ha un amore molto speciale per te. Ma per me, il silenzio e il vuoto è così grande che io lo cerco e non lo trovo, provo ad ascoltarlo e non lo sento. Giunse inoltre ad affermare: "Nella mia anima sperimento proprio quella terribile sofferenza dell'assenza di Dio, che Dio non mi voglia, che Dio non sia Dio, che Dio non esista veramente". Questo stato, che con alti e bassi accompagnò la seconda metà della sua vita, venne così commentato dalla suora: "Ho cominciato ad amare le mie tenebre perché credo che siano una parte, una piccola parte delle tenebre di Gesù e della sua pena sulla terra".
Non una fanatica, quindi, ma una fine intellettuale, per vocazione e per cultura. Una donna vicina al tormento di coloro che si avvicinano alla fede, cercando una adesione che sposi ragione e speranza e che, comunque, sceglie di aderire con raziocinio e intelligenza ad un progetto totalizzante, basato sulla estrema libertà di essere.
Una Santa, quindi che non appartiene alla solo Chiesa cattolica, pur essendone una delle figlie più illustri del secolo passato, ma all’umanità intera. Di ieri, di oggi, di domani, di sempre.
E’ la dimostrazione che il cristianesimo non è una religione, intesa in senso tradizionale come un mezzo per mettere in comunicazione la divinità con l’uomo, ma un incontro con una persona ideale, Gesù di Nazareth. E Madre Teresa ha sposato questa filosofia in ogni istante della sua vita. Vedeva il Cristo nei poveri e lo amava in essi, lo vedeva nei moribondi e lo assisteva in essi, lo vedeva nei bambini nati e non nati, di cui difendeva strenuamente il diritto alla vita. Nel discorso tenuto alla consegna del Premio Nobel, dichiarò: «Sento che oggigiorno il più grande distruttore di pace è l'aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa. [...] Perché se una madre può uccidere il suo proprio figlio, non c'è più niente che impedisce a me di uccidere te, e a te di uccidere me».
Un pensiero, una azione che fanno di Teresa di Calcutta la Santa di tutti, la piccola grande donna, tormentata dall’artrite e dalla malaria di fronte alla quale si sono inchinati tutti, dai mendicanti indiani ai potenti della terra quando, il 5 settembre 1997, ha lasciato la vita terrena, per riposare nella pace.
Chi cerca soluzioni percorribili al bagno di sangue che sta inondando il mondo in questi tempi tormentati, potrebbe trarre spunto dalla vita e dall’insegnamento di questa straordinaria creatura.
Anche lei, come i kamikaze dell’Isis ha scelto di perdere la sua vita per una causa. Anche lei, come i kamikaze dell’Isis combatteva un mondo che non condivideva.
Teresa, però, a differenza dei kamikaze dell’Isis, ha dato la sua vita per la Vita e non per la morte. Ha regalato pace, non distruzione, ha amato senza condizioni e non ucciso.
E credenti o no, tutti si augurano che il primo miracolo che farà, una volta salita agli onori degli altari, sarà quello di aiutare una umanità dilaniata dalle divisioni e dall’odio a tornare a guardare alla vita con gli occhi sereni di una donna innamorata.

Di Dio e dell’uomo.