giovedì 11 agosto 2016

Quale futuro per l'Unione?

DOPO LA BREXIT, QUALE EUROPA?


di
Marco Giustinelli

Ci eravamo addormentati tranquilli che non era cambiato nulla e che la paura di vedere i sudditi della regina Elisabetta uscire dal club europeo, si sarebbe definitivamente dissolta con le prime luci dell’alba. Invece, anche stavolta, i sondaggisti avevano preso una sonora cantonata. La maggioranza dei cittadini inglesi aveva detto che l’esperienza europea – o meglio, la permanenza in questa Unione Europea -  era terminata nella terra di Riccardo Cuor di Leone e di William Shakespeare.
Si potrebbe dire che la Scozia aveva votato compatta per la permanenza, insieme all’Irlanda del Nord e alle grandi aree metropolitane, che subito dopo milioni di britannici avevano chiesto di ripetere il referendum, che sono spuntati “pentiti” ad ogni angolo delle strade, ma la realtà è una e incontrovertibile: Ai cittadini inglesi era stata posta una domanda e la risposta è arrivata chiara e forte. Questa è la democrazia.
Che poi il supponente Cameron se l’è andata a cercare con il lanternino questa incredibile débâcle, è altrettanto vero. La storia è fatta più dagli errori degli uomini che dalle loro virtù. E il premier inglese ha certamente incarnato nel peggiore dei modi questo concetto. Per avere tutto, ha perso tutto. Paese, partito, credibilità personale e internazionale. E ha provocato danni al suo paese, all’Europa e al mondo intero di cui si pagheranno le conseguenze per anni.
Perché in un momento storico in cui, faticosamente, si stava uscendo dalla lunga crisi economica, il sistema aveva bisogno come il pane di stabilità e certezze e, invece, la Brexit fa piombare tutta la comunità internazionale in scenari, come sottolineato da Mario Draghi, assolutamente nuovi e, conseguentemente, pieni di insidie. E’ comprensibile quindi la presa di posizione di molti autorevoli esponenti politici che chiedono di affrettare le procedure di uscita della Gran Bretagna dall’Unione, come sostenuto anche dal nostro Matteo Renzi.
In questa fase è meglio avere uno scenario chiaro, anche se doloroso, che nebbioso e indefinito. Lo vogliono i mercati, lo vogliono le borse, lo vogliono tutti quelli che ancora credono in una idea di Europa che vada al di là degli egoismi dei singoli membri e che abbracci, invece, un concetto di unione politica e sociale di bel altro e alto livello.
Non era certamente questa l’Europa ipotizzata da Spinelli o da Schuman. Oggi abbiamo una Europa spaccata, che trova un suo comune denominatore solo nella moneta unica. Non era l’Europa delle banche e della finanza quella sognata dai padri fondatori. E quando si toglie forza ai sogni e si lascia solo ai soldi, questi sono i risultati che si ottengono. La gran Bretagna è fuori, i paesi mediterranei arrancano tra debito pubblico e indicatori negativi. Se non si trovano soluzioni a tempi brevi, la possibilità di una implosione è sempre più vicina al passaggio dal possibile al probabile.
Il passaggio virtuoso, può essere solo quello che passa dalla finanza alla solidarietà. La disomogeneità dei sistemi di governo dei singoli stati che vanno dalla Monarchia costituzionale di Spagna, Belgio e Paesi del Nord alla Repubblica parlamentare dell’Italia a quella presidenziale della Francia alle democrazie ancora con influssi totalitari dei paesi dell’ex Europa dell’Est, non consentono, realisticamente, di pensare ad una unione politica in tempi brevi o comunque non lunghissimi.
Quello che si può e si deve fare, invece, è agire su alcuni aspetti sicuramente percorribili. Innanzitutto strutturare una difesa comune, con Forze Armate europee e con Missioni di Pace affrontate da un unico esercito continentale, così come la gestione delle politiche di immigrazione e di protezione delle frontiere esterne. La sicurezza, nei tempi dell’Isis, è certamente un aspetto prioritario. Poi le politiche fiscali vanno unificate, in modo da garantire la stessa base di partenza dal punto di vista della competitività a tutte le imprese operanti sul territorio dell’Unione. Poi, l’aspetto più delicato. I paesi più virtuosi, come la Germania (che in questi anni si è arricchita sulle disgrazie degli altri), dovrebbero rinunciare al concetto di finanziare il debito pubblico in modo differenziato per nazione. I titoli di stato dei paesi dell’Unione dovrebbero essere riuniti in “titoli Europei” garantiti, solidalmente, da tutti i componenti dell’Unione. Finirebbe così lo spauracchio dello Spread e si comincerebbe a parlare di Europa in modo più concreto e solidale. Se continuiamo così, invece, oltre a coltivare un orticello sempre più piccolo e meno fornito, continueremo ad avere la percezione che siano altri a decidere perfino che ortaggi piantare.
Viviamo quindi la Brexit come un problema che crea una opportunità. Certamente questo evento ha smosso una situazione di stallo e di continua gestione dell’emergenza e dei piccoli e grandi egoismi nazionali. Non lasciamoci sfuggire l’opportunità di ripensare l’Europa come la patria di tutti, come madre attenta ai bisogni dei suoi figli e non come matrigna egoista e lontana. Solo così l’effetto domino che, inevitabilmente, la Brexit sta innescando, forte anche delle basse speculazioni intellettuali di chi pensa di usare le disgrazie proprie e altrui per raggranellare manciate di voti e di potere a basso costo, può essere depotenziato e si possa tornare a pensare l’Europa come la culla della civiltà dove tutti e ciascuno possano sentirsi orgogliosi di appartenere e di averla come patria per i propri figli.


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